A lezione da Viola

A lezione da Viola

6 Settembre 2016 2 di Caterina

Ore 8:30, fine della lezione di tennis.
Sono sudata, stanca, entusiasta, affamata (se giochi alle 7:30 del mattino, la colazione si fa dopo… quando ti arrendi ai tuoni provenienti dal tuo stomaco implorante). La mente si è attivata, però, e viaggia verso i seguenti pensieri:

Che meraviglia che è fare sport all’aria aperta. O, meglio, vivere in un posto dove puoi permetterti di fare sport all’aria aperta, a tutti gli orari, per almeno 10 mesi l’anno.

Devo farmi la doccia in 7 nanosecondi, asciugarmi i capelli coi finestrini aperti della macchina e truccarmi al primo semaforo rosso. Solo così arriverò in tempo in ufficio. Orribile, ma puntuale.

Com’era la mia vita precedente, quella in cui si usciva da lavoro e si stava due ore sul campo da tennis, di cui un’ora e mezza a chiacchierare con le amiche e mezz’ora a far finta di sudare dietro la pallina gialla? Ora che tempo (ed energie) sono diventate due variabili risicatissime nella mia esistenza, incastrare gli impegni in orari impensabili è lo sport che mi riesce meglio. Praticamente sono una campionessa di “Tetris di agenda”. Anzi, ‘sta cosa la devo brevettare, va.

Mentre mi sto concedendo queste riflessioni, mi trascino verso lo spogliatoio.
Che sarà vuoto, come sempre a quest’ora, io ne sarò regina indiscussa, e peccato dover fare tutto di corsa.
E invece: sbem slang tum-tum sponf craaac…. Eh? Che sono questi rumori?
Lo spogliatoio è chiuso. Anzi, è aperto, ma gremito di operai.
“Stamo a fa’ i lavori pe rifallo mejo, oggi nun è aggibbile”

Ah, bene. In un film americano, lei sarebbe comunque entrata e avrebbe fatto la doccia nonostante la presenza degli operai basiti e intrigati, uno l’avrebbe sedotta, si sarebbe scoperto poi che era in realtà un miliardario annoiato che si camuffava da operaio e l’avrebbe di lì a pochi mesi portata all’altare. E vissero felici e contenti.
Ma in un film americano gli operai sarebbero stati probabilmente interpretati come minimo da Hugh Jackman e non dal Danny De Vito con cui ha parlato lei (che vabbè, manco lei è Scarlett Johansson, a pensarci bene, però certo…).

Il problema – quello della doccia, eh – resta. Dove vado?

“Se fai al volo, puoi andare a quella giù in fondo, prima che arrivino i 97 bambini del centro estivo” dice la giovane maestra di tennis.
Per la cronaca, scoprirò più tardi che il numero non era iperbolico, ma la cifra esatta della mandria di tappetti festosi che avrebbe calcato i campi da tennis e svuotato a suon di tuffi la piscina di lì a poco.

Mi precipito nello spogliatoio indicatomi e – con una rapidità che se avessi messo in campo 10 minuti prima sarebbe stato molto meglio, mannaggia a me – inizio veloci operazioni di lavacro.

Quand’ecco che entra lei.

Bionda, occhi verdi, bellissima, mani cicciotte che avvolgono uno zainetto pieno di principesse magrissime disegnate sopra.

Sento fuori che lo sciame ronzante di piccole voci sta crescendo d’intensità. Ma nello spogliatoio, mentre già mi sto rivestendo, ora c’è lei. Che mi guarda. Che immediatamente mi parla. Anzi, che mi inonda di domande e di perché senza alcuna pietà per l’orario, per la mia fretta, per il mio digiuno.

Chi sei

Che fai

Cos’è questo
(per la cronaca me l’ha chiesto su qualsiasi oggetto tirassi fuori dal mio borsone, l’apoteosi è stata “è un deodorante”; “e a che serve?”; “a deodorare”; “e perché?”; “perché sennò puzzo”; “e perché non puoi puzzare?”; “perché vado a lavoro e ai miei colleghi non piace se puzzo”; “e perché ai tuoi colleghi non piace che puzzi?”; aaaaaargh)

Perché

Perché

Perché

Cos’è quest’altro

Perché

Perché


Come si interrompe questo interrogatorio? In assoluto non lo so, io ho reagito così: ho iniziato a mia volta a bombardarla di domande.
Lei si chiama Viola e di anni ne ha tre dita alzate e mezzo. Ci tiene a dirmi che non ne ha solo 3 di anni, eh, mi raccomando quel mezzo, che fa la differenza e la rende molto più grande di quelle altre che ne hanno solo 3.
(roba che io altro che sei mesi in più, dichiaro – da anni – 6 anni in meno)

Viola è nello spogliatoio con me e non è fuori con gli altri, perché gli altri già vogliono correre, giocare, etc. Ma lei non capisce tutta questa fretta e questa energia. Lei prima di iniziare la sua faticosa giornata di giochi, mi spiega, ha bisogno di rilassarsi.

Usa davvero il verbo “rilassarsi”. Io la sto iniziando ad adorare. Mi dice che però si rilassa con il ciuccio, che la mamma le ha messo qui, vedi, nello scotch. Non è uno scotch, Viola, è uno scottex, ma lei mi dice che scotch e scottex sono due parole identiche anche se io e lei le diciamo in maniera diversa.

Continuo con le domande, ho quasi finito di prepararmi, devo evitare riprenda lei il controllo dell’interrogatorio. Ma riesce comunque a chiedermi perché non mi rilasso un po’ con lei e perché devo andare a lavoro. Anche la sua mamma lavora, aggiunge.

“E che lavoro fa?”
“Alessandro, Giulia, Carla, Maria e Claudio”
Chi so’ questi ora?
“Non ho capito, Viola, che lavoro fa tua mamma?”
“Loro sono i suoi colleghi, non lo so che fanno. Fanno quello che fa mamma, che non lo so.”
“Ah. E tu vai a scuola, vero, Viola? Immagino che tra un po’ ricomincerai… Come si chiama la tua scuola?”
“La maestra Valentina, la maestra Eleonora, la maestra Francesca e la maestra Maria.”
Sta ragazzina da grande scriverà le pagine gialle.
“Viola! Ti avevo chiesto il nome della scuola, mica delle maestre!”
“Ma io non lo so quello. Io chiamo le maestre.”

Devo andare, porca miseria, le mie giornate sono sempre una corsa… le prendo la mano, la porto dai coordinatori del centro estivo.
“E tu non resti? Non ti vuoi rilassare?”
“Scusami, piccola, quella è la mia macchina, devo salirci e andare da…” segue elenco dei nomi dei miei colleghi.

Perché Viola mi ha dato una lezione, oggi.
Per i bambini non conta né il lavoro né il luogo. Non sanno cosa fai e non gli importa il posto.
Contano solo le persone.

 

Caterina

[foto che ritrae (parte) dell’autrice, Roma, marzo 2014]